
“Luca, da qui parliamo sottovoce”
“Ok…ma perché?”
“Gli animali sentono la vibrazione delle nostre corde vocali, se parliamo sottovoce quasi non ci percepiscono. Ah, e attento a non pestare la neve perché fai rumore, se puoi cammina sull’erba”
Paolo cammina a grandi passi anche in salita, saltando da un appoggio saldo all’altro. Non muove un sasso, quasi non fa suoni. Al contrario di me: nonostante anni e anni di esperienza in montagna, in questa situazione mi sento estremamente goffo. Siamo carichi di materiale: non solo la macchina fotografica con le mie ottiche, ma il suo cannocchiale (“il lungo”), i ramponi, da bere, mangiare ed i vestiti invernali. Paolo porta il fucile, insieme al binocolo e al grande sacco ripiegato con cura che forse ci servirà per portare a valle l’animale.
Sono a caccia, o meglio…sto accompagnando a caccia un amico e cacciatore di selezione. Una persona con un’etica di ferro, già lo sapevo, ma essere sul campo è tutta un’altra cosa. L’animale a cui aspiriamo oggi è uno yearling di camoscio, ovvero un esemplare giovane. Siamo in Val Varaita, poco distanti dal Monviso, anche se questo rimane nascosto per la maggior parte del tempo dietro i ripidissimi versanti erbosi su cui ci andremo a muovere.

Erano almeno un paio d’anni che volevo fare questa esperienza: sono stato vegetariano per 7 anni della mia vita, poi un’incontro con un porcaro sardo mi ha fatto reintrodurre la carne nella mia alimentazione. Da lui ho mangiato il miglior maiale della mia vita, cresciuto allo stato brado nell’altopiano del Supramonte, mangiando ghiande di leccio ed erbe aromatiche che rendono inutili sale e spezie in cucina. Questo ritorno mi ha reso molto più selettivo, non mangio più carne del supermercato, scegliendo invece carne di animali che hanno avuto una vita dignitosa fino al momento della loro morte. Non è per niente semplice reperire polli ruspanti, menchemeno bovini cresciuti all’aperto o pescato selvaggio. Inoltre la carne fuori dalle buste di plastica non sempre è pronta da cucinare, per cui ho iniziato ad interessarmi alla sua macellazione. Il prezzo di questa scelta si riflette nella quantità di animali presenti nella mia dieta: piuttosto che mangiare carne di pessima qualità preferisco mangiare vegetariano, facendo un favore non solo agli animali ma anche al mio corpo. (Un inciso: l’industria degli allevamenti intensivi deve fallire, adesso. Piuttosto mangiamo insetti, che sono pure buoni dalla mia esperienza diretta).
Tuttavia la selvaggina è un’altra cosa, e come persona da sempre interessata ai temi ambientali, ho sempre guardato alla caccia con un certo astio. L’idea di prelevare, uccidendoli, animali il cui habitat è lo stesso che nutre il mio cuore, mi faceva un certo ribrezzo. Quando sono tornato a vivere fuori dalla grande città, portandomi dietro una visione essenzialmente cittadina dell’ambientalismo, addirittura non ho esitato a fare qualche dispetto ai cacciatori della mia zona.
Qualcosa è cambiato quando ho conosciuto la mia compagna Chiara. Grazie a lei mi sono interessato all’alimentazione con le piante selvatiche. Uscire a raccogliere offre un punto di vista completamente nuovo sui territori. Non solo si inizia a dare un nome a tante forme vegetali, imparando a riconoscerne caratteristiche ed habitat, ma ci si iniziano a fare domande sulla salute dell’ecosistema stesso. Uno dei mantra di Chiara è “buona terra, buona aria, buona acqua”: raccogliere in ecosistemi degradati può farci molto male, così come far manbassa di specie poco comuni può comprometterne la presenza negli anni successivi. Praticare il foraging è stato uno dei gesti che più mi hanno fatto uscire da un ambientalismo idealizzato, dando invece concretezza alla mia percezione dei territori. E non solo dei territori che ho sempre definito “selvaggi”, ma anche di quelli che prima manco consideravo, come i prati in collina, incredibili serbatoi non solo di biodiversità ma anche di cibo e medicina, minacciati dalla costruzione di nuove villette e capannoni. In definitiva la conoscenza delle erbe selvatiche mi ha profondamente riconnesso all’ambiente e al mio potere personale, attraverso la capacità di sostentarmi e curarmi.

E’ a questo punto che ho iniziato ad interessarmi al tema della caccia: non facendo distinzione di qualità di forma di vita tra una pianta ed un animale, il passaggio è stato piuttosto naturale. Ma come approciarsi a questo mondo che fino a poco tempo fa consideravo popolato di “piccoli omini” che sparano vigliaccamente ed in maniera sregolamentata agli animali che solitamente ammiro?
Qualche tempo fa è arrivata la proposta di un corso di macellazione della selvaggina con Paolo, che oltre ad essere cacciatore e raccoglitore è uno chef d’alto livello (progetto Servaj). Al corso l’ho visto lavorare un giovane camoscio con precisione e rispetto, senza sadismo o truculenza, dando dignità all’animale ucciso per sostentarci. Un camoscio che lo stesso Paolo aveva cacciato un paio di settimane prima, facendo attenzione a sparargli esattamente tra cuore e polmoni, in modo da evitargli qualsiasi sofferenza inutile e per preservare le carni da ematomi e contaminazioni provenienti dall’apparato digerente. Vedere l’animale aperto mi ha fatto sentire fratellanza, scoprendo per esempio che quello che chiamiamo “filetto” altro non è che lo “psoas”, oggetto di tanti esercizi di presenza e rinforzo che tanti di noi umani eseguiamo abitualmente. Assaporandolo noto un sapore resinoso: Paolo mi racconta che ha osservato l’animale nel suo habitat oltre un anno, e quel sapore è la diretta conseguenza della sua vita nei radi boschi di pino cembro. Il camoscio è così conosciuto e riconosciuto come individuo, esemplare singolo e famigliare allo chef-cacciatore.
Assistere alla macellazione completa dell’animale e nutrirmene è stata vera educazione alimentare, qualcosa che consiglio a tutte e a tutti.
Con Paolo ci siamo piaciuti, e così gli ho chiesto di poterlo accompagnare a caccia.

E così eccomi a camminare coi ramponi sull’erba ripidissima, cercando il “nostro” yearling. Siamo a 6 km da casa sua, dal luogo in cui ha scelto di vivere. Questi sono i versanti in cui ha seguito gli animali per tutto l’anno, imparando a riconoscerli e monitorando attentamente la salute della specie ed il numero di esemplari. L’assegnazione dello yearling non è casuale: i camosci hanno un tasso di riproduzione piuttosto costante e la scelta degli animali da abbattere è decisa ogni anno dalla forestale. Lo scopo del processo venatorio di selezione è avere una popolazione in equilibrio col territorio ed in salute, favorendone il ricambio generazionale e genetico.

Questi versanti sono ben popolati, nel corso della mattina vediamo nutriti gruppi ci cervi e caprioli. Ma i camosci? Quelli stanno sul ripido, dove sono più a loro agio e più al sicuro dalle predazioni. Non a caso il nome scientifico del camoscio è Rupicapra rupicapra, un animale straordinario capace di correre a oltre 30 km/h sul quarto grado d’arrampicata. Proseguiamo verso i punti più spaventosi di questa montagna, e superato qualche canale colmo di neve ghiacciata finalmente vediamo i primi camosci. Paolo prende il binocolo, ma siamo distanti. “Luca passami il lungo” (il cannocchiale). E’ una mamma coi due capretti di quest’anno, niente per noi. Proseguiamo ancora un po’, ed ecco un altro gruppo di camosci che gioca a rincorrersi sulla neve. Non ho mai visto nulla del genere, l’inclinazione sarà di circa 50 gradi, il terreno ghiacciato, eppure si rincorrono veloci, facendo eleganti piroette laddove io cammino attento ad evitare una caduta quasi certamente fatale.
Paolo mi chiede di nuovo il lungo: “Ci siamo, guarda! Vedi le orecchie? Se sono lunghe pressapoco come le corna, allora sono degli yearling” “Che facciamo?” “Dobbiamo avvicinarci ancora un po’, muoviti attento a non fare rumore. Ah, e non passare controcielo, tieniti basso, altrimenti ti vedono subito”. Paolo controlla col telemetro, 350 metri: “E’ troppo, rischio di sbagliare il tiro”. Tanti cacciatori avrebbero già sparato, ma l’etica di Paolo è ferrea: vuole evitare di prendere male l’animale, causandogli atroci sofferenze oltre che creando emorragie interne che rendono pessime le carni. “L’animale va preso e spento al primo colpo, piuttosto si torna a casa a mani vuote”.
Ci avviciniamo ancora, i camosci continuano a giocare tra loro, ignari della nostra presenza. Siamo a 220 metri, una distanza buona per sparare. Ci appostiamo, Paolo carica il fucile e si mette in posizione di tiro. Il cuore mi inizia a battere più forte, la mia respirazione è corta, agitata. “Hai mai sentito sparare uno di questi?” “Non a questa distanza” “Preparati, il colpo è molto forte”. Da monte arrivano dei camosci adulti, gli yearling si spostano leggermente, andando in una zona particolarmente ripida, dove sarebbero irrecuperabili.
Aspettiamo.
Fa freddo. Ci saranno -4 C e si è alzato il vento.
Aspettiamo.
Ho freddo, non mi sento più le dita della mano sinistra. Perché non ho preso i guanti pesanti? I pensieri scorrono veloci mentre tutto il resto è immobile.
Aspettiamo…

Uno yearling si alza su una piccola dorsale, che potremmo raggiungere senza troppe difficoltà. Paolo prende la mira, il mio respiro si ferma, mi tappo l’orecchio sinistro…ma l’animale si gira di sedere.
Un attimo dopo gli adulti si avvicinano, gli yearling entrano in dinamica con loro ed eccoli correre verso valle ad una velocità impressionante. Questione di un secondo o poco più e sono scomparsi. Siamo tornati soli. “Luca, anche oggi si torna a casa a mani vuote…” “Dici?” “Senti proviamo a girare dietro quel versante, vediamo se siamo fortunati”.

Proseguiamo su terreni sempre più ripidi, ammetto di essere un po’ a disagio, i ramponi perforano lo strato di brina sull’erba facendo presa sulla terra sottostante. La traccia è esile ed in stato di completo abbandono. Arriviamo ad un magnifico belvedere con dei grandi massi, dove troviamo delle coppelle non censite. Qui anche l’essere umano è a casa da decine di migliaia di anni. Pranziamo, estraggo un piccolo panettone dallo zaino, con grande gioia di entrambi. Mentre lo addento, gustandomi l’impasto burroso, realizzo quanto questo sia un lusso moderno: oggi in ambiente alpino saremmo a bocca asciutta o al massimo avremmo potuto raccogliere qualche lichene o radice invernale. Una lezione preziosa, che mi ricorda quanto le posizioni ferme e radicali non solo siano indifendibili nel mondo reale ma diventino anche delle gabbie alla nostra stessa evoluzione.
Proseguiamo, risalendo una cresta su terreno via via più facile. Paolo si immobilizza di colpo, con la coda dell’occhio nota un capriolo nel bosco di pini cembri a poche decine di metri da noi. Per me era completamente invisibile. Usciamo dal bosco, tornando sulle praterie. Ogni tanto ci avviciniamo in silenzio alla cresta sperando di sorprendere al di là qualche camoscio, magari il “nostro” yearling. Niente. Arriviamo a quasi 2500 metri di quota, dopodiché iniziamo a scendere da un sentiero ghiacciato, comunque un terreno molto più agevole rispetto a quello in cui ci siamo mossi il resto della giornata.
Torniamo verso gli alpeggi più alti, usciamo dal territorio di caccia. Tornare a parlare usando le corde vocali mi riconnette al canto, il rituale sonoro collettivo che i primi esseri umani celebravano dopo le loro battute in cui per ore quel tipo di suoni non viene emesso.
Siamo all’automobile, sentiamo uno sparo dai versanti. La mattina avevamo incontrato altri due cacciatori, provenienti da 400 km di distanza, con cui avevamo concordato di dividere la zona in due aree, e a noi, arrivati pochi minuti dopo al posteggio, era toccata la più ripida e complessa. Paolo rimane piuttosto neutro, ma io non riesco a spegnere il giudizio dentro di me per cui le risorse dei territori non devono essere sfruttate in maniera turistica, ovvero con grandi spostamenti circolari (turismo viene da “tornata”, andare lontano per poi fare ritorno), scollegati dal luogo in cui si abita. Sorrido, ho accompagnato a caccia un giorno e mi reputo già il massimo esperto. Ma mi rendo conto che certi meccanismi che noto nell’escursionismo e nell’alpinismo sono diffusi anche in altri ambiti, e alla fine è l’etica che sta dietro ad ogni gesto a fare la differenza tra vivere un territorio e sfruttarlo.

Non so se mai arriverò a sparare ad un animale selvatico, non so nemmeno se lo voglio veramente. Tuttavia l’esperienza di oggi mi ha aperto gli occhi, insegnandomi soprattutto la differenza tra la caccia etica e quella sanguinaria: cacciare in maniera rispettosa di sé, del territorio e degli animali è possibile, solo che siamo talmente polarizzati che tendiamo ad ignorarlo, preferendo schierarci di qui o di là.
Oggi mi sono riconnesso a una delle attività più vecchie del mondo, un potente modo di unire i puntini tra me e l’ambiente, riscoprendomene parte e confermando quanto è prezioso esplorare nuove parti di sé e aprirsi al cambiamento.
Grazie Paolo!
Link:
Cucina Servaj
Paolo Meneguz
PS: qualche giorno dopo io e Paolo ci siamo scritti, anche quella volta lo yearling è scampato alla morte. Quando la caccia è fatta eticamente, pochissime battute vanno a segno, e poter mangiare selvaggina diventa un atto ancora più raro. E se si ha scelto di non comprare più carne al supermercato, questa è l’occasione di tornare a sentirla come qualcosa di profondamente sacro.
PS 2: nei prossimi giorni farò un annuncio a cui tengo particolarmente, un progetto a cui sto lavorando da oltre un anno. Se vuoi rimanere aggiornata o aggiornato, ti invito a iscriverti alla mia newsletter:
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