Per una montagna senza ometti

Lo scorso Settembre stavo raggiungendo una cima secondaria, di quelle di cui l’ultima relazione di salita è di parecchi anni fa e che per arrivarci bisogna attraversare terreni respingenti. Avevo abbandonato il sentiero da parecchie ore, inventando la mia traccia in mezzo alle pietraie, risalendo qualche placca in facile arrampicata e stando attento che ogni passo fosse il migliore prosieguo del precedente e il miglior precursore del suo successore. 

La sensazione di esplorazione era stupenda, chiedendomi ad ogni passo se fossi sulla strada giusta e se fossi davvero arrivato in cima o se ad un certo punto avessi dovuto rinunciare, assaporando il percorso fatto fin lì. E’ cosa veramente rara sentirsi così nelle Alpi, sicuramente la catena di montagne più antropizzata e frequentata del mondo.

Sono infine arrivato in cima, e proprio su quel cucuzzolo dimenticato si ergeva un ometto di pietre accatastate, qualcuno voleva chiaramente dire “io sono stato qui”. Non ci fu nulla di rassicurante in quel segno antropico, in più la vetta era perfettamente riconoscibile. In compenso, il mio senso di isolamento ed esplorazione si ribellava a questa invasione da parte di qualcuno che voleva rimarcare la sua presenza. Non ci ho pensato due volte, sasso a sasso ho smontato l’ometto di vetta, riportando quella punta alla sua forma naturale.

Smontare un ometto è sicuramente un gesto forte che non invito certo a fare alla leggera. Per me arrivare a questo punto è stato un processo lungo anni. Provo a raccontarvelo.

 

Frequento la montagna da sempre, e come tutti noi sono stato educato che gli ometti sono un piacevole segno antropico nel paesaggio. Sono stato educato a sentirli rassicuranti, esattamente come una croce di vetta, le bandiere tibetane, le firme a pennarello sulla roccia e tutti quei simboli che mitigano il senso di isolamento e di essere a tu per tu con la natura. Un po’ come succede coi lampioni stradali, la cui luce ci tutelerebbe da eventuali malintenzionati, impedendoci di vedere la meraviglia di un cielo stellato.

Dopo le Alpi, ho esplorato per anni fuori dall’Europa con dei viaggi molto simili a delle spedizioni, dove però ero io a spedirmi da solo. Soprattutto nell’estremo Nord America, i segni antropici scompaiono dal paesaggio. Per esempio nello Yukon ho percorso ed accompagnato in itinerari di trekking di più giorni, in cui il sentiero era semplicemente inesistente, non c’erano cartelli indicatori e gli incontri con la fauna selvatica (compresi orsi e lupi) erano piuttosto comuni. Gli enti gestori come i parchi erano molto chiari: nessuno ti costringe a camminare qui, lo fai sotto la tua responsabilità e non vogliamo modificare il territorio per il tuo divertimento.

Nonostante queste realtà siano distanti migliaia di km dalle Alpi, questo approccio mi ha affascinato. Mi sono reso conto che è possibile uscire dalla mania di controllo e di sicurezza a tutti i costi che caratterizza la nostra società (soprattutto Italiana), responsabilizzare le persone, mettendole in contatto con la verità che la loro sicurezza dipende dalle loro scelte e capacità, di cui ognuno è responsabile di esserne cosciente. Ascoltando con mente aperta, è facile capire che questo comportamento non è impedire di andare in ambiente, ma rimettere il potere nelle mani delle persone.

Nelle Alpi ovviamente è impossibile tornare ad una situazione pre-antropica: il nostro territorio è abitato dalla notte dei tempi, e qualche segno umano sarà sempre presente. Tuttavia, e chi frequenta la montagna lo sa bene, non appena si esce dagli itinerari più conosciuti, l’attività antropica recente, quella legata al turismo, sparisce completamente. Si piomba indietro di almeno cento anni, tra alpeggi abbandonati, pascoli inselvatichiti, coppelle e altri segni delle civiltà precedenti. Appena ci si alza di quota poi, sempre stando fuori dagli itinerari classici, ci si ritrova negli ultimi preziosissimi angoli selvaggi raggiungibili senza prendere aerei.

Questo racconto di contesto per spiegare perché secondo me costruire un ometto è agire in uno spazio molto particolare, oltre che molto ristretto rispetto alla totalità dell’ambiente antropico.

 

Ma quali sono le ragioni che spingono le persone a costruire un ometto? Vi dico la mia.
In primo luogo il costruttore si sente di fare un servizio: dire a chi verrà dopo di lui dove passare, pensando di evitare inconvenienti “così la gente non si perde”, come se lui stesso non fosse parte della “gente”.
In secondo luogo, costruire un ometto va a gonfiare l’ego del costruttore: temiamo talmente tanto di essere dimenticati che pensiamo di dover comunicare qualcosa, ovunque e comunque a tutti i costi.

Secondo me, entrambe queste ragioni non giustificano un cambiamento dei pochi angoli rimasti integri in montagna. Nessuno è obbligato a camminare fuori dai sentieri tracciati e curati, e nel momento in cui sceglie di uscirne, si accetta la solitudine e il senso di responsabilità individuale (con entusiasmo nel mio caso). Per orientarsi esistono strumenti come le cartine e i nostri stessi occhi: dopo un po’ ci si abitua a non stare sui binari e fare la propria strada.

In secondo luogo, per troppo tempo la montagna è stata utilizzata per imporre agli altri la propria presenza e i propri dogmi: penso alle croci di vetta, alle cappelle, alle targhe, alle baite vissute come seconde case ma illuminate tutte le notti dell’anno…tutto questo è riassumibile nelle panchine giganti, una grottesca caricatura di questo modo di vivere la montagna.

Gli ometti sono qualcosa di sicuramente meno drastico di una panchina gigante, ma agiscono in un territorio molto più ristretto e con degli equilibri molto delicati. Rimangono comunque uno svilimento dell’esperienza altrui: costruire un ometto fuorisentiero elimina il concetto stesso di fuori-sentiero ed impone un aiuto non richiesto (e se scegli di andare fuori sentiero, non lo fai per caso) oppure fa eco ad un “io sono stato qui” di qualche effimero umano.

Lo ripeto: il non antropizzato nelle Alpi è ridotto ai minimi termini, ed è uno spazio molto prezioso da tutelare.

Resistere a costruire un ometto vuol dire tutelare uno spazio molto speciale. Smontare un ometto è sottrarre il ricordo umano da quello spazio, restituendolo al suo stato originale, favorendo l’esperienza di chi verrà dopo di noi.

Smontare un ometto è un prezioso gesto di sottrazione. Le montagne sono state vittime di una nostra continua addizione, ed infatti sono piene di rifiuti (basti pensare alle funivie abbandonate, oltre 1500 nelle Alpi).

Accettare una montagna (alta e non) senza ometti vuol dire rimettere in discussione i nostri obiettivi e la nostra smania di raggiungere la nostra destinazione a tutti i costi. Rende più semplice perdersi o dover tornare indietro. Due possibilità la cui presenza sento come molto naturale ed educativa nel momento in cui si sceglie di uscire dalla propria comfort zone.

Sicuramente questo mio modo di pensare ed agire creerà un forte conflitto in alcuni lettori, e lo capisco. Siamo talmente intrisi dalle credenze che ci sono state imposte che è difficile uscire da certi schemi di ragionamento. Per anni ho preso come unico modo di approcciare la montagna quello che porta a costruire ometti, e ammetto di averne impilati molti in passato. Ancora oggi nelle scuole di escursionismo e di alpinismo si incitano le persone a costruire cataste di pietre facendo leva sulla buona fede delle persone nel sentirsi utili.

Tuttavia penso che se ci si approccia all’ambiente con cuore aperto e occhi attenti, ci si renda conto che oggi più che mai è importante mettere in discussione i dogmi con cui siamo cresciuti e reclamare un rapporto più sentito, informato e ragionato con ciò che ci circonda.

 

E tu, hai mai costruito un ometto? E cosa farai con il prossimo che incontrerai?

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