Ho avuto paura, anzi terrore. Ho trascorso intere giornate, settimane con un senso di oppressione, pensando che tutto fosse perduto e che non potessi cambiare nulla. D’altronde ci viene continuamente detto che “siamo fottuti”, e l’impressione è che ogni possibile soluzione si infranga sulla scogliera dell’ignoranza e dell’avidità di troppe persone.
Qualcuno la chiama eco-ansia. Personalmente le ho dato un significato più ampio: ci viene detto che cambiare vita è difficile, praticamente impossibile. Fin da bambini siamo stati istruiti a mettere il ragionamento davanti ai sogni, non ad usarlo come uno strumento per realizzarli. Siamo stati educati a sacrificare noi stessi non per qualcosa che amiamo, ma per il nostro dovere. Siamo cresciuti istruiti a dare la colpa di ciò che non ci piace a qualcosa di altro da noi, senza mettere a fuoco che dare la colpa non è un motore di cambiamento. Siamo diventati bravissimi a relegare il nostro essere ad un tempo limitato e ben definito nella nostra vita.
Il risultato è un mondo in cui troppi di noi fanno un lavoro che non li rappresenta, che vivono in un luogo che non li rappresenta, in sintesi, che hanno la sensazione che la loro stessa vita non li rappresenti, senza aver alcuna possibilità di cambiare radicalmente le cose. E siamo indotti a proseguire su questa strada fino a spegnerci. E’ un terreno fertile per la paura, quella cieca, quel senso di raggelante terrore in cui si è incapaci di alcuna azione se non andare avanti come si è sempre fatto, come ci è stato insegnato.
Personalmente ho vissuto così per anni, e questi meccanismi non mi hanno mai abbandonato del tutto. Tuttavia qualcosa è cambiato.
Deve essere iniziato nel 2008, quando feci il mio primo trekking importante da solo: avevo appena preso la patente, al che andai da solo in Valle d’Aosta camminando fino ai 3000 metri di un bivacco al cospetto del Monte Bianco. Avevo 18 anni, fu la scintilla di un fuoco che ci mise anni a fare la brace. Vado avanti veloce: una laurea, un lavoro d’ufficio, una vita in una grande città.
Il bisogno di andare in natura era sempre nelle mie viscere, ma ero diventato bravissimo a comprimermi. Avevo la possibilità di fare dei viaggi stupendi ed andavo in montagna quando il lavoro me lo permetteva, e questo per un po’ mi è bastato. Per 11 anni della mia vita terminata un’avventura mi mettevo subito a programmare quella successiva, per sentire meno lo stridere di quello che c’era in mezzo.
Fino al 2019, in cui tornato da una auto-spedizione in Cordillera Huayhuash (Perù), mi fu semplicemente impossibile reintegrarmi nella mia vita. Dentro di me emerse una certezza: “questa cosa non la faccio più”. Un punto fermo nel ritmo del mio cuore, imprescindibile come respirare. Richiesi la mia liquidazione, me ne andai dalla città e mi dedicai completamente alla fotografia, per poi diventare guida escursionistica l’anno dopo.
Quindi, è fatta? Felice?
Mica tanto, perché agli occhi di chi per anni è stato fuori da un’ambiente, vivendo una vita grigia, la natura non sta bene. Vedendo i ghiacciai sciogliersi, bombardato da notizie di incendi apocalittici ed isole di plastica, arrivai a pensare che siamo fottuti, e che per il pianeta sarebbe molto meglio che ci estinguessimo. Come dicevo all’inizio, mi sono disperato all’idea che quella felicità che avevo vissuto da bambino negli anni ‘90, coi ghiacciai che dal Monte Bianco scendevano fino a fondovalle, non sarebbe più tornata. Mi arrabbiai tantissimo di essermi risvegliato così tardi, certo che il mondo sarebbe peggiorato, inesorabilmente.
Ma quel fuoco dentro di me ardeva ancora, coinvolgendo tutto il mio essere: il cuore, il ragionamento ed il mio corpo. Sono sempre stato curioso, ma la possibilità finalmente di essere per la maggior parte del mio tempo in natura mi diede l’occasione di connettermi profondamente, con una sete di capire al di là dei problemi, ma semplicemente cercando di vedere le cose senza cadere subito nel giudizio.
Nel 2021 ho incontrato Chiara Cenedese, insieme a lei ho finalmente ascoltato quella parte di me che richiedeva di stare in natura con sensibilità e delicatezza. Ma non solo, lei mi ha anche aiutato ad approfondire le mie competenze botaniche ed ecosistemiche, solamente abbozzate durate il corso guide. Quando il sentire del corpo e del cuore lavorano in concerto con la capacità razionale si aprono possibilità straordinarie. Insieme abbiamo continuato a stare in natura, lo facciamo tutt’oggi, per la maggior parte del nostro tempo, a partire dai luoghi che abbiamo scelto di abitare.
Piano piano dalla visione superficiale di una natura sofferente è emerso qualcos’altro. Deve essere stato quando ho iniziato a riconoscere le spontanee (quelle chiamate erbacce), capendo la loro forza vitale e il sostegno che ci possono dare. E’ stato nel passare da un verde indistinto ad esclamare “guarda una piantaggine!” (Plantago sp.) indicando una fogliolina che emerge in una crepa nel marciapiede in città, sapendo che se ne avessi bisogno potrebbe curare irritazioni, bruciature e tagli al pari se non meglio della connettivina.
Nello studio razionale c’è sempre un momento di paura: mi ricordo quando ho scoperto l’esistenza delle Reynoutria japonica, la pianta considerata più invasiva del mondo. Il nostro ragionare umano, che non vede l’ora di giudicare, la considera il nemico assoluto. Tuttavia ascoltando profondamente, esiste un senso di misteriosa speranza nel vedere una pianta tanto resiliente da riuscire a crescere a metà di un palo della luce affondando le radici nel suo cemento. Vedere che in un mondo con interi ecosistemi compromessi questa pianta riesce a prosperare fa paura, perché sottolinea il cambiamento, ma guardando con maggiore ampiezza, da tantissima speranza. Se poi aggiungiamo che questa pianta ha proprietà ancora non del tutto studiate per prevenire e curare la malattia di Lyme e si diffonde proprio in quei territori pedemontani dove le zecche, portatrici della malattia, sono più abbondanti, emerge un qualche tipo di senso che ancora non capiamo a fondo.
Ma voglio tornare al “mio” Monte Bianco, la montagna sotto cui sono cresciuto. I suoi ghiacciai si stanno ritirando, facendo scomparire i panorami dei miei ricordi d’infanzia.
Mi ricordo quando i miei genitori mi portavano a passeggio fino a toccare il Ghiacciaio del Pres de Bar, la cui lingua oggi è 400 metri più in quota, ritirata sopra una grande placconata di roccia, irraggiungibile. Tuttavia il bosco sta risalendo versanti che aveva abbandonato almeno dal XVI secolo. Nel suo ritirarsi il Ghiacciaio del Rutor ha scoperto una torbiera a 2600 metri in cui ci sono ceppi d’albero e tracce di polline di tiglio risalenti al quarto millennio A.C. Il tiglio è un albero che oggi è difficile trovare sopra i 1000 metri di quota. Cambia anche la fauna, con per esempio il ritorno del lupo in queste valli, tanto osteggiato ma comunque inevitabile, solo ritardabile a suon di fucili e vigliacchi avvelenamenti. Questi cambiamenti possono fare tantissima paura per la rapidità a cui avvengono e per lo spazio di ignoto che lasciano, ma è sempre un punto di vista umano.
Il nostro pensiero razionale è terrorizzato dall’ignoto. Per quanto studiamo, le nostre emozioni non sono capaci di stare al cospetto di modelli previsionali che superano la durata della nostra vita e che in qualche modo contemplano la nostra distruzione: la paura fa la voce grossa, e pensiamo che andrà comunque tutto male. Quell’ignoto è lo stesso che ci trattiene bloccati in delle vite che non ci assomigliano, certi che solo programmando tutto nei minimi dettagli saremo pronti ad un futuro che non conosciamo.
Personalmente non ho idea di come saranno le mie montagne tra qualche decennio o centinaio di anni. La realtà si dimostra molto più complessa e imprevedibile dei modelli di previsione. Allo stesso modo, non so se la vita che ho scelto sarà uguale a sé stessa per i prossimi 40 anni o se il luogo che ho eletto a casa sarà per sempre esattamente come lo conosco oggi. Esiste un enorme “non lo so” nel futuro.
Ma come si relaziona la natura con il “non lo so”? Ho provato a chiederlo ad un albero, un essere che tra l’altro non può muoversi, le cui scelte sono molto limitate, dal nostro punto di vista limitato. Mi ha risposto a modo suo.
Quell’acero di monte (Acer pseudoplatanus) è cresciuto lungo una pista forestale, nelle Alpi Cusiane. Per far passare i trattori hanno tagliato quest’albero (all’incirca mio coetaneo) all’altezza delle mie spalle. Lui ha ributtato un piccolo pollone, con le foglie verdi, nella speranza di garantire la sopravvivenza della pianta almeno alla prossima generazioni di frutti, i cui semi contenuti nelle samare voleranno da qualche parte diventando potenzialmente grandiosi. E’ lo stesso spirito con cui, di fronte ad autunni sempre più miti, ho visto primule e violette fare la seconda fioritura. Esiste la possibilità che i loro fiori finiscano congelati, ma loro si abbandonano al fertile miracolo della vita, sbocciando. Non è un semplice abbandono, ma un’affermazione di vita anche in condizioni razionalmente non ideali.
Mi sento di inserire qui la lotta ecologista. Sono sempre stato un difensore degli ecosistemi, partendo dai più vicini, quelli che mi stanno più a cuore. Oggi più che mai penso sia importante impedire alla società del capitale di continuare ad erodere il nostro spazio vitale. Quel bosco dietro casa, quell’altipiano in Devero, quel vallone sotto il Monte Rosa, così come altri luoghi del cuore, meritano tutta la cura e la capacità di dare battaglia di cui siamo capace. Tuttavia rido pensando a quando i cadaveri dei fautori di questi scempi verranno divorati dal micelio di qualche fungo che non è stato nemmeno classificato, diventando substrato per nuove specie vegetali. In quel momento probabilmente il mondo sarà diverso da come lo conosco oggi, ma sono certo sarà un mondo pulsante di vita in cui tante di queste infrastrutture saranno state riassorbite dalla vegetazione.
E allora, siamo noi la causa di questo disequilibrio? Ci dovremmo forse estinguere per il bene del pianeta? Questo è un altro pensiero molto comune, attraverso cui sono passato anche io. Tuttavia penso che anche questo venga dal pensiero puramente razionale, che vede da una parte “la natura” e dall’altra “l’uomo”, ponendo una separazione arbitraria ed antropocentrica. Sono profondamente convinto che noi siamo parte integrante dell’ecosistema, che attraverso di noi sta sperimentando una delle infinite possibilità di cui è capace. Penso che tutto questo nostro modificare e spostare di qui e di là verrà integrato in qualche modo in un piano più grande che noi non siamo, e probabilmente non saremo mai, capaci di comprendere.
Ancora oggi esiste la possibilità di abbandonarci alla speranza, di abbandonarci alla consapevolezza che non possiamo sapere tutto e prevedere tutto. Abbandonarci all’essere una parte di qualcosa di universale che possiamo vedere solo parzialmente. E’ una consapevolezza vecchia come il mondo, che gli esseri umani dell’antichità avevano fatta loro, a modo loro.
Ho scelto di abbandonarmi alla speranza, coltivandola ogni giorno, inneggiando alla vita.
I temi messi a fuoco in questo articolo sono stati supportati da numerose conversazioni, confronti e pratiche con Chiara Silvia Cenedese, fondatrice di Madreselva (qui), che ringrazio dal profondo del cuore.
Nella foto: un arcobaleno ai limiti del possibile che ho fotografato lo scorso Agosto in Yukon.