Negli ultimi mesi ho iniziato una pratica radicale, che potrebbe essere fraintesa come vandalica: far eliminare da Google Maps i luoghi in montagna a me più cari. E’ una procedura semplice e veloce, basta cliccare su suggerisci modifica e segnalare che il luogo è da rimuovere.
Mi sono interrogato a lungo sulla questione, d’altronde servizi come Google Maps, o gli stessi social come Instagram, vengono presentati a noi come salvifici alleati nella vita quotidiana, disponibili gratuitamente, quando invece sono prodotti commerciali pensati da aziende che hanno come fine il profitto.
A differenza rispetto ai prodotti commerciali classici, che hanno un costo per essere fruiti, questi trasformano l’utente in fornitore, e la merce fornita diventa il contenuto estratto dall’utente in cambio di qualche like o di un gratificante badge. Non siamo abituati a pensare in questi termini, ma ogni nostro post, recensione, segnalazione o azione sono in realtà un prodotto che queste piattaforme mettono a profitto. In alcuni casi possiamo vederlo in termini di baratto, per esempio per un’attività commerciale conviene creare dei contenuti, perché in cambio ottiene visibilità e potenziali clienti. Quando invece l’utente medio mette a disposizione la sua immagine e il suo tempo per ricevere in cambio scariche di dopamina e riconoscimento sociale, che dovrebbero essere a disposizione di tutti senza intermediari, allora qualcuno si sta approfittando di qualcun altro.
Questo meccanismo è ancora più vero per i luoghi naturali.
Almeno una persona sceglie liberamente di apparire online, ma il paesaggio e tutti gli esseri non-umani che lo abitano, prima conosciuti da una manciata di abitanti locali e da pochi turisti, si trovano improvvisamente esposti a milioni e milioni di persone. Sembra un meccanismo innocente, ma se pensiamo al sovraffollamento di tanti luoghi a seguito della notorietà sui social, ci rendiamo conto che in realtà l’atteggiamento di questo tipo di piattaforme è predatorio e scarica sull’ambiente il proprio costo sociale ed ecologico. Tecnicamente, si parla di “esternalità negativa”, ovvero quando un’azienda scarica un danno all’esterno senza pagarne il costo.
Le aziende che controllano e ricavano profitto da piattaforme come Google Maps, Instagram e simili, ci hanno talmente abituate ai loro meccanismi che una pratica come quella che ho iniziato a sperimentare viene socialmente vista come un danno alla collettività. Siamo stati talmente abituati che tutte le informazioni debbano essere sempre a disposizione di tutti, che ci pare inconcepibile che un luogo non sia mappato, recensito, fotografato, votato e che il modo per arrivarci non sia minuziosamente descritto con tanto di tracce gpx da seguire guardando il telefono al posto che il paesaggio.
D’altronde abbiamo uno stile di vita sempre più frenetico e reperire informazioni diventa fondamentale per ottimizzare il nostro tempo. Per il trekking domenicale, unica occasione di sfogo, diventa imperativo andare a colpo sicuro, altrimenti si ha “buttato la giornata”. Il corollario è che tendiamo a riprodurre ciò che abbiamo già visto, sentendo come nostro un contenuto che è solo un’altra goccia nell’oceano dell’uguale.
Ci sono passato anche io, e mi ricordo quando decisi di usare Instagram professionalmente: l’agenzia che mi fece la consulenza nel 2018 mi invitò a usare i geotag e gli hashtag per rendere i miei post indissolubilmente legati ai luoghi più cliccati. E’ un meccanismo tanto efficace quanto spersonalizzante. E le piattaforme non sono imparziali, sono intrinsecamente strutturate per spingerci ad agire così, plasmandoci ai capricci dell’algoritmo.
Scoprire il Patto del Non Racconto di Michele Comi, che ho sottoscritto a Giugno 2022, è stata una vera rivelazione: mi sono sentito meno solo di fronte ad un meccanismo apparentemente senza alternative. Siamo talmente assuefatti ai meccanismi di omologazione che con un “eh ma è così” mettiamo da parte ogni senso critico e sempre più spesso siamo pronti a difendere questi stessi meccanismi a spada tratta.
Il filosofo Byung-Chul Han nei sui libri (su tutti “Perché oggi è impossibile una rivoluzione”, Nottetempo 2023), parla di come la nostra si sia trasformata in una società dell’informazione trasparente. Il concetto di fiducia, un tempo radicato e naturale, oggi si è legato alla disponibilità di informazioni.
Per esempio in un colloquio di lavoro, l’azienda non solo verificherà le informazioni del CV (cosa legittima), ma passerà al vaglio i profili social del candidatə, e la cosa ritenuta più grave è proprio quella di non avere profili social: “chissà questa persona cosa nasconde…meglio passare allə prossimə candidatə!”.
L’informazione trasparente ha ormai contaminato tutti gli aspetti della nostra vita: persino le app di dating si basano proprio sulla trasparenza, tant’è che un profilo Tinder a cui sono legati i propri profili social è molto più efficace. E’ quasi inconcepibile oggi uscire con una persona senza averne prima approfondito la conoscenza online tramite un attenta analisi dei suoi social, dal profilo alle sue interazioni.
La fiducia è un concetto molto sottile, ed esiste proprio nel momento in cui si fa una scelta senza avere tutte le informazioni a disposizione. Questo vale nei confronti delle altre persone, ma è anche alla base dello spirito d’esplorazione in qualsiasi campo. La fiducia nelle proprie capacità e nel proprio senso del limite è alla base di qualsiasi uscita in montagna, specialmente fuori traccia. Sopravvalutarsi vuol dire mettersi in pericolo, sottovalutarsi ci limita.
Prova a pensarci: quand’è l’ultima volta che hai scelto un trekking, o semplicemente un ristorante, senza prima guardare attentamente recensioni e relazioni su Internet? Questo gesto, impensabile anche solo un paio di decenni fa, è diventato parte integrante del nostro processo decisionale. Certo, esistevano delle guide cartacee, ma la loro completezza è imparagonabile a quella delle piattaforme a nostra disposizione oggi.
Nel frattempo app di realtà aumentata come Google Lens ci vengono proposte come i migliori interpreti della realtà. Quando entriamo in contatto con qualcosa che non conosciamo, penso sia molto limitante chiedere ad un software di impartirci la sua verità piuttosto che cercare di comprendere quello che abbiamo davanti, magari col supporto di un altro essere umano. Per esempio su usi e tradizioni locali Google sa pochissimo e parlare con unə anzianə del luogo è l’unico modo per accedere ad una conoscenza che altrimenti verrà persa. Nonostante questo, è pensiero sempre più comune che con una buona connessione e delle buone app possiamo sapere quanto basta di tantissime tematiche.
Il meccanismo della trasparenza d’informazione trova ancora delle sacche di resistenza. Prova a chiedere ad unə fungaiolə dove trova i porcini, probabilmente riceverai in regalo una bella amanita falloide. Per anni ho frequentato la community dell’Urbex (l’esplorazione urbana), e in quella cerchia era la prassi pubblicare le foto dei luoghi senza dare alcuna informazione su coordinate o accesso. Il motivo è ovvio: un edificio abbandonato in buono stato se sbandierato pubblicamente si trasforma rapidamente in una discarica.
Il problema è che percepiamo l’ambiente naturale come un servizio dovuto, ovvero un qualcosa che il nostro sistema socio-economico ci deve mettere a disposizione, aggiungendo confort e sicurezze che sono proprie del sistema stesso, non dell’ambiente naturale in cui ci siamo evoluti. Per dirla in parole povere, come società pensiamo che l’ambiente naturale sia il nostro parco giochi.
Percepire l’ambiente naturale come un servizio porta inevitabilmente ad appropriarsene, che penso sia alla base di tanti problemi di oggi. L’eccesso di infrastrutture turistiche come zip-line e funivie, le ferrate, pratiche come l’eliski, l’utilizzo ideologico dell’ambiente naturale con le croci di vetta o la land-art invasiva delle panchine giganti, la politica che fomenta i valligiani contro i lupo ed il turismo di massa sono tutti figli di un impulso a riempire e mettere a profitto quello spazio “vuoto” e gratuito che è l’ambiente naturale. Perdere la nostra personale capacità di interpretare e dare una nostra valenza all’ambiente naturale spiana la strada al fatto che qualcuno ce lo possa rivendere in qualche forma distorta.
In un mio recente post sulla rimozione degli ometti, qualcuno ha obiettato che in questo modo si mettono in pericolo altre persone. Penso questo sia un problema di abitudine ed aspettativa, ovvero se pensiamo che muoverci in un ambiente naturale voglia dire fare un’esperienza sui binari, allora ecco che avere informazioni approfondite diventa fondamentale, abdicando alla nostra capacità di orientamento e lettura del territorio, capacità che abbiamo evoluto per milioni di anni.
Questo è ancora più vero se l’andare in natura diventa un atto puramente sportivo, per cui gli aspetti naturali divengono secondari rispetto alla performance. La priorità diventa così raggiungere la vetta in un determinato tempo, senza comprendere e fare proprio il percorso di avvicinamento, che spesso racchiude segreti più interessanti di qualsiasi vetta raggiunta.
Affrontare un’uscita in ambiente con scarse informazioni rende più coscienti di sé e delle proprie capacità e incapacità, permette di fare proprio ogni passo, connette potentemente all’ambiente e a sé stessi. In breve, ci aiuta nel nostro processo di auto-determinazione, un termine che appare oggi tanto scomodo quanto rivoluzionario.
Alle mie uscite di trekking invito le persone ad usare con spirito critico applicazioni di riconoscimento della flora e della fauna: sono un valido supporto, ma affidarci completamente a queste può essere deleterio, anche per la nostra salute. Allo stesso modo, ormai le applicazioni di sentieristica prevedono con presunta precisione i tempi di percorrenza, inclusi i dislivelli, ma raramente questi corrispondono alla realtà, specialmente se si ha un minimo di curiosità per l’ambiente circostante. Quello che faccio come guida escursionistica è cercare di trasmettere un metodo di interpretazione piuttosto che calare una verità, risvegliando la propria sensibilità. Il mio fine ultimo è quello di diventare superfluo.
Personalmente penso che diventare un piccolo granello di sabbia negli ingranaggi dell’informazione dilagante sia un gesto che serve innanzitutto a sé stessi: è l’occasione di entrare in contatto con ciò che è veramente importante per ognuno di noi, evadendo da una gabbia di bisogni indotti. Inoltre penso che rendere più difficile l’avanzata del rullo compressore del consumismo, sia un gesto di grande civiltà, seppur venga additato come vandalismo.
Non mi illudo che il mio gesto individuale possa contrastare milioni di persone indotte a fornire ogni possibile informazione, ma il senso critico e più in generale il dissenso è un come un muscolo, da allenare con piccoli gesti. Tra l’altro il sistema che tiene in piedi le grandi società come Meta o Alphabet (Google), inducendo così tante persone a fornire il proprio aiuto gratuito ed entusiasta, è completamente basato sulla fiducia nella menzogna che le piattaforme di loro proprietà siano un bene collettivo. Questo è un genere di fiducia piuttosto fragile viste le sue basi e per questo non escludo che possa anche cadere come un castello di carte.
Inoltre, è proprio nel contraddittorio che stanno le più belle opportunità di crescita, oltre che l’occasione di instaurare rapporti di fiducia autentica e profonda.
Questo è un articolo che farà discutere, proprio per questo motivo ho deciso di filtrare le risposte ed i commenti che ricevo. Un’opinione articolata, soprattutto quando espressa in uno spazio privato e personale come questo sito, merita una delicatezza a cui ci stiamo disabituando. Invito ognuno a farsi un pensiero proprio nel proprio spazio personale, e leggerò solo risposte che includano il numero 47 all’inizio del messaggio, così potrò capire se l’articolo è stato letto per intero. Se questo ti suona eticamente discutibile, bene, perché le aziende che gestiscono le piattaforme su cui socializziamo ragionano in maniera molto più radicale di me.
Nella foto di copertina: le Tre Cime di Lavaredo viste da Cuneo, o forse no?