Yukon ed Alaska: viaggiare per acquisire consapevolezza e speranza.
Non ho deciso alla leggera di portare un gruppo dall’altra parte dell’emisfero boreale. Oggi più che mai siamo tutti consapevoli dell’impatto che viaggiare, specialmente in aereo, ha sull’ecosistema, da tantissimi punti di vista. Ci ho pensato per diversi mesi, dopo quattro anni di esplorazione concentrata sull’arco alpino, le mie montagne di casa.
In questi quattro anni ho acquisito sensibilità e soprattutto conoscenze ambientali. Grazie al corso guide, alla mia curiosità e agli insegnamenti della mia compagna inizio finalmente a capire qualcosa di ecosistemi, e più ne comprendo i meccanismi, più mi stupisco dell’infinita complessità che ci circonda, che probabilmente non capiremo mai del tutto. Prendendo consapevolezza dei nostri ecosistemi, è però facile cadere nella preoccupazione se non addirittura nella paura: siamo bombardati continuamente da brutte notizie, ed è molto facile fare propria l’idea che ormai tutto sia compromesso, perduto.
Alla fine mi sono deciso, ed ho organizzato questo viaggio. L’intento è stato molto chiaro: tornare in un luogo in cui la natura è alla sua massima espressione, condividendo l’esperienza con altre persone.
Una volta giunti là, l’effetto è stato ancora più potente di quello che pensassi. In questa parte del Nord America vivono circa 5000 persone (fuori dalla capitale) in un territorio più grande di tutta la Francia, la densità abitativa è semplicemente irrilevante. Qui ci sono molti più lupi ed orsi che persone, e si avverte ad ogni passo.
Abbiamo guidato per ore senza incrociare altre macchine, su strade che attraversano centinaia di kilometri di foresta primaria di Picea Mariana e Populus Balsamifera. Gli orizzonti sono semplicemente sconfinati, e non vi è nulla di umano qui. D’altronde i primi insediamenti occidentali risalgono a circa un secolo fa, e i nativi della zona erano pochissimi oltre che in perfetto equilibrio con l’ambiente.
Poi i ghiacciai, che non sono come i nostri, ovvero abbarbicati sulle vette più alte. Qui i scendono come lunghe lingue di centinaia di kilometri da un’enorme calotta molto più grande della Svizzera. E’ difficile immaginare una terra non polare in piena era glaciale, con valli come la Valtellina o la Valle d’Aosta interamente riempite di ghiaccio in movimento. Ho parlato coi glaciologi del Canadian Arctic Institute, che ci ha ospitato per più di una settimana, scoprendo che i loro modelli anche a 1000 anni ne prevedono sì una ritirata, ma sono ben lontani dal sciogliersi completamente. Anzi, la vetta del Monte Logan, esattamente come quella del Monte Bianco, sta crescendo perché sempre più neve si sta accumulando. Inoltre le sei lingue maggiori avanzano a turno, a velocità di diversi metri al giorno, con un meccanismo che ancora oggi rimane poco chiaro nonostante gli studi. L’ignoto, che siamo stati educati a temere, qui riempie di speranza.
Tuttavia guardando la vegetazione sono rimasto colpito dalla scarsissima biodiversità botanica di questa terra. Soprattutto nello Yukon, la tundra è composta sempre dalle stesse specie e i boschi stessi sono quasi tutti monospecifici. Probabilmente questa è una conseguenza dell’azione dei ghiacciai insieme alla breve stagione vegetativa. Tuttavia, il confronto con le Alpi lascia di stucco, da noi la biodiversità è impressionante in ogni metro quadro di bosco, tundra o prato che sia.
Più che tutto mi ha affascinato l’integrità di questi luoghi, in cui l’azione dell’uomo è completamente irrilevante, così distanti dall’affermazione che “la montagna muore”, ripetuta a pappagallo da chi vorrebbe potenziare le infrastrutture nelle nostre Alpi, come se la nostra presenza fosse indispensabile.
Mi sono anche reso conto di quanto sia distorta la visione che abbiamo di queste terre: parlando con chi non c’è stato, sembra che qui sia tutto un oleodotto, uno spianare foreste e di questi ghiacciai in ottima salute non se ne parla nemmeno. Visitando lo Yukon ci si rende conto che gli spazi sono semplicemente enormi e che la narrativa disfattista dello “ma anche loro!” si focalizza su poche eccezioni, col risultato di far credere che tutto faccia schifo, in una depressione collettiva.
Insomma, questo viaggio ci ha portati esattamente dove speravo: da una parte ha aumentato la speranza, facendoci capire che il nostro pianeta ha ancora tante sorprese in serbo per noi e che ci sono ancora tanti angoli bellissimi e con ecosistemi sani. Dall’altra parte ha risvegliato ancora di più la consapevolezza di quanto sia prezioso il poco di selvaggio rimasto nelle Alpi, che nella sua piccolezza racchiude tantissimo.
Tornati da un’esperienza del genere, di vita profondamente vissuta in prima persona, si è molto più resistenti alla retorica, che vorrebbe convincerci che tutto fa schifo, che tutto è perduto e che non sarà certo sbancare quei pochi ettari di un versante alpino a fare la differenza. Il velo cala facilmente sugli intenti di iniziative come le Olimpiadi Milano Cortina o sul Percorso Cicloturistico del Grande Est: eventi umani fatti per gli interessi economici di pochi ricoperti di retorica, esattamente come troppi articoli sensazionalistici di giornali che utilizzano la paura per fare qualche click in più. Lo stesso potrei dire di ogni prato che più in pianura viene cementificato per costruire un centro commerciale o l’ennesima fabbrica, perché “tanto qui ormai è tutto rovinato”.
Sapere che esiste un luogo nel mondo in cui la vita naturale e selvaggia è protagonista assoluta porta inevitabilmente a difendere quello che c’è da noi, carichi di speranza ma anche consapevolezza.
Grazie Yukon, grazie Alaska e grazie a chi ha creduto in questo viaggio.
Le foto:
In copertina: strade infinite tra Yukon ed Alaska
Sotto (1): Un “affluente” si butta nel Kaskawulsh Glacier, un ghiacciaio di 39.000 km2
Sotto (2) Le foreste primarie a perdita d’occhio, in questo caso monospecifica di Picea Mariana (Abete Canadese)
Sotto (3) Sulla calotta degli icefields, foto della mia esplorazione del 2016
Sotto (4) un raro esempio di biodiversità nella tundra boreale
Sotto (5) una prateria alpina a 2500 m in Valle d’Aosta
Sotto (6) il mio gruppo in vista della Duke Valley, una valle intoccata dall’essere umano più grande della Val d’Ossola.